MARCO SAYA EDIZIONI
Urla la fine che pianta germogli
Si può ancora parlare d’amore – così tanto bistrattato in poesia – senza essere solo amore ma biolo gica sostanza dell’amato? O meglio, si può essere ciò che si ama, non per amare, ma soltanto per essere? Si può dare risposta, prova tangibile (e quindi arte) d’amore, senza passare dalla gabbia stereotipata del sentimentale spicciolo, dunque senza sbranare ma es sendo sbranati? Questo sembra voler provare Letizia di Cagno (Bari, 1998) con la sua opera prima dallo strug gente titolo Urla la fine che pianta germogli: ossia deci frare l’amore (e ciò che si ama) attraverso la dispersione del proprio sentimento. Il ri sultato di tale esperienza, ovvero quello che in questo libro resta al lettore, sono forse soltanto i cocci di un vaso in divenire, e la poetessa, da brava va saia, lo sa bene, dato che ama il suo stesso invaso, ma anche l’incavo dell’amato, la sua lon tananza che è proprio, e a ragione, dentro di lei. Poiché amore, per tutti, è stare da soli in due; amore ovvero sedimento, di una radice che alimenta due alberi. Questa è l’inversione dell’amore, la propria riconoscenza: un esistere attra verso l’altro e per l’altro, che siamo noi. Condizione nobile ma anche di struttiva, perciò umanis sima. E cos’è il poeta, se non il più umano degli amanti, se non il più innamorato dei perdenti? Letizia di Cagno assimila be ne questa lezione, offrendoci una poesia in telligente e sana, giustamente emotiva ma misuratissima, proprio come l’amore vero.